Francesco Giulio Farachi
"Ritratti"
Forse il torto più grande che si possa fare a Letizia Cavallo, e ai suoi “ritratti” di piante e
fiori, è considerare il suo lavoro esclusivamente come frutto di una, pur presente e forte,
passione per la botanica e della seduzione visiva che piante esotiche e nostrane
indubbiamente esercitano su chi, per indole e per mestiere d’artista, mastica il pane della
bellezza.
Piuttosto… L’artista mette in serie visiva e ideale i portati di una ricerca che da un lato è
artistica e pittorica, dall’altro dipana i percorsi di un contatto costante e diretto con il reale,
con l’esperienza del circostante e del quotidiano, con l’imprevedibile molteplicità
dell’aspetto delle cose. L’apparente ordinarietà dei soggetti, appunto piante e fiori ripresi a
schizzo dal vivo e poi rielaborati a studio, si sveste così di ogni stereotipo di genere e di
concetto, e invece rivela l’esistenza concreta di un mondo naturale, dei suoi processi
biologici e di adattamento ambientale, da cui tutti noi siamo, forse irrimediabilmente,
distaccati (per la “modernità” dei nostri stili di vita o proprio perché li diamo per scontati e
non ce ne diamo cura). E anche solo il titolo di questa mostra dà un’indicazione inequivoca
sull’intenzionalità con cui Letizia Cavallo piloti la percezione visiva in un contesto più
ampio di riflessione artistica e culturale. “Nature vive” pone infatti un accento acuminato
sulla distanza di queste rappresentazioni dai cliché (delle “nature morte” ovviamente, ma
anche delle illustrazioni naturalistiche, degli ornati calligrafici e decorativi), ma soprattutto
provoca una sorta di piccolo inciampo logico ed emotivo perché ci si soffermi con
attenzione allo spettacolo di linee, forme, colori che si offre nell’esser vivo di un fiore,
nell’esser rigogliosa di una pianta. “Esser vivo”, sembra una mera specifica di descrizione,
e invece evidenzia tutta la forza e potenza e fascino e mistero dell’esistere, dell’esserci,
del manifestarsi di un’individualità precisa, del rivelarsi di una presenza, di una
persistenza, di vita. Non per niente, abbiamo detto, e l’artista stessa così li dice, questi
sono “ritratti” di piante e fiori.
Non solo. Tutt’altro che essere una galleria di singoli soggetti, l’uno distaccato e autonomo
dall’altro, l’esposizione si costruisce come un insieme concertato di passaggi e gradi, di
richiami e percorrenze, dove ogni elemento prende parte di un eden fantastico e al tempo
stesso effettivo, immaginario e nondimeno reale, realissimo. Ancora una volta, “vivo”.
Così, di essenza in essenza, di profusione in profusione, si colma la rappresentazione
unitaria di quest’eden immaginifico, luogo e spazio di una natura sublimata, e per ciò
stesso inibita all’invadenza dell’uomo. Si esplicita in alcune tele, punto focale della mostra,
in cui la vegetazione florida e lussureggiante fa da ambito per una presenza sfuggente, la
figura femminile eterea e indistinta che incarna l’essenza vitale, e al tempo stesso la
purezza fragile, recondita ed evanescente della natura. Lo sguardo dell’osservatore, lo
sguardo dell’uomo, varca la soglia di un’intimità insondabile e bastevole a sé, ignota ma
anche, fin troppo, ignorata; rischia perciò di essere uno sguardo doppiamente profanatore,
sia nell’atto di violare tale intimità, sia nella protervia con cui se ne disinteressa.
Dunque, tutto l’impianto espositivo è pervaso da una visionarietà impellente, che però è
morbida, quasi elegiaca, prodotto di una ripresa rapida, una mano abile e un
temperamento sensibile. Ogni singolo “ritratto”, e poi l’insieme con le tele (che mi permetto
di definire) “edeniche”, tutto è teso a indirizzare una ricognizione visiva ed emotiva che
affermi il valore degli elementi naturali, specie al momento attuale in cui proprio il soggetto
nominale, la natura, è reso elusivo ed effimero come tutte le esperienze nel mondo
dell’immagine nelle civiltà contemporanee. Anche nelle arti figurative infatti, e benché una
più sensibile consapevolezza ecologica sia ormai diffusa, è difficile riscontrare un concetto
di natura definito e “reale”, fuori da trasfigurazioni di stampo romantico e passatista o, di
converso, da diretti riferimenti alla sfera antropica, dove la natura è oggetto passivo e
spesso simbolico, natura creata, pensata, immaginata in funzione della presenza umana.
Di fatto, la natura naturans che Letizia Cavallo ci pone dinanzi agli occhi e alle menti
conserva un duplice aspetto di peculiarità: non si ignora l’aspetto, diremmo, scientifico che
interpreta la natura come un sistema autoregolato di assidue interazioni organiche,
sistema olistico e a sé sufficiente; ma esso convive con l’aspetto sociale e culturale,
nonché propriamente pittorico, che promuove la considerazione della natura come
elemento, e come soggetto “produttivo”, di carattere estetico e sentimentale.
Per questo, i suoi fiori, le sue piante creano un rapporto tra artista/osservatore e natura
che non indaga solo la vitalità e varietà di strutture, luci, colori dei soggetti, ma genera un
ordine pittorico astratto e concettuale di contemplazione estetica e al tempo stesso di
interconnessione dinamica tra prodotto artistico e processi naturali delle specie vegetali.
La non-simultaneità tra materia osservata, dipinto ed esperienza sembra svanire o,
meglio, sembra compenetrarsi e si è liberi di entrare in un mondo rarefatto di pura estetica.
Letizia Cavallo fa pulsare una sottile sensazione di stacco dal soggetto ritratto, e la visione
degrada, a volte si fa liquida e cola, ai margini di un campo visivo impreciso, spesso
dissipato in un fondo bianco-lattiginoso o in gradazioni nebbiose di verdi, azzurri. In tal
modo, l’artista compensa la misura di luce e materia che incide sul soggetto ritratto,
creando perciò su di esso un ordine distinto dallo spazio fisico, dal punto di osservazione,
dalla stessa percezione visiva. Si potrebbe temere che così l’osservatore, ma anche
l’artista stessa, in qualche modo venga reso solo un testimone contingente, quasi
estraneo, di un mondo de-umanizzato. Per paradosso, accade il contrario. Diminuendo
l’impatto del punto di osservazione e di contestualizzazione, riducendosi quindi il piano
dello sguardo attivo, l’osservatore è libero di immaginarsi in una posizione qualunque
rispetto all’ambiente circostante, in un contesto sovrano che diventa esperienza intima,
privata, personale. E questo non fa altro che dare a chi guarda la sensazione di
un’integrazione fisica e soprattutto emotiva, piena e inconsapevole, di pura
contemplazione e di coinvolgimento come di fronte allo svolgersi di una serie di storie
terrestri di cui anch’egli è parte.
Il concentrarsi del tutto sul soggetto va a finire che crei un confronto di corpo a corpo delle
opere con l’artista prima e con l’osservatore poi. È un confronto lieve, a dire il vero, giocato
su reciproche instabilità. L’artista ha spesso ripreso lo stesso fiore o la stessa pianta in
sedute successive e in momenti diversi. Detto per inciso, questo ha anche in parte
motivato la scelta di esporre insieme disegni e opere pittoriche del medesimo soggetto,
affinché non solo le variazioni organiche, ma anche quelle di tecnica e di rappresentazione
rendessero gli effetti transitori della luce, delle stagioni, delle fasi vitali delle piante. Senza
forzare un traslato con i tempi e le circostanze umani, è tuttavia intrigante soffermarsi a
riflettere come il momento catturato fra gli ininterrotti cicli della natura circoscriva anche il
momento, l’umore, l’assetto e il disporsi della sua osservazione, ne dichiari pure di essi la
costante mutabilità.
Anche di questa variabilità/molteplicità di tempi e apparenze si nutre la cura con cui Letizia
Cavallo elabora le immagini dei suoi soggetti. Il mondo delle piante e dei fiori, in un certo
senso, è sempre lo stesso eppure costantemente diverso, è cardine di opposti, di durata
come di cambiamento. L’artista allora sceglie di restituirgli nel colore e nella materia
pittorica questo suo carattere autentico e primordiale. I contorni e le definizioni perdono
consistenza di fronte alla espansione di lievi sensazioni cromatiche, in cui l’acidula
dominanza dei verdi e degli azzurri si tempera con le sue stesse gradazioni e a sua volta
sottomette profondità al vivido accendersi dei gialli, rossi, dei porpora e indaco, degli
aranci e dei bianchi. Persino nei disegni, laddove la cromia si fa uniforme, e tutto si articola
solo sui passaggi chiaro-scurali, su volumi di luce e sfumature, si percepisce la
concomitanza di durata e temporaneità, di molteplicità e specifica individualità.
Tutto questo avviene, sempre visivamente, per le tensioni quasi astratte fra linea,
movimento, segno e orientamento, per l’assoggettarsi al colore e alla luce, e quindi alla
pittura, di una sensazione di vita che invece una precisione paralizzante ovviamente
smentirebbe. Per uguale suggestione, l’artista elabora una propria strutturazione delle
tecniche e dei materiali della sua pittura, e di opera in opera, su tela o su carta, applica
grafite, acquerello, olio, tempera, carboncino, ora da soli, ora in varia combinazione di
tecnica mista, a seconda di come il soggetto, o il momento pittorico, accolga l’articolarsi
della vibrazione luminosa, o si esprima nella matericità degli strati e nella densità delle
superfici. A volte gli effetti di questo lavorìo sulla e con la materia si confrontano per lo
stesso soggetto, come prima accennato, quasi a voler far insistere lo sguardo su
uguaglianze e differenze; ma in generale, sono tutti conseguenza di un approccio poetico,
di quella sensibilità che si fa tattile e retinica, ma che proviene da una profonda, non-
ragionata, analisi del sentimento.
L’amore per la vita e la vitalità di questo mondo fatto di infiorescenze brillanti e di
lussureggianti fogliami che Letizia Cavallo raffigura, ce ne restituisce il senso ancora di
vicinanza alla nostra distratta esistenza, è il contatto con la natura da percepire. Il
procedimento artistico stratifica pigmenti e leganti in sequenza di emozioni, ma così
solamente sarebbe sterile e fine a sé stesso. Invece qui si tratta di una rappresentazione
di vita che parli alla vita, è il corpo a corpo di cui dicevamo, è la percezione di realtà e
poesia che si fa luce nei “ritratti” di Letizia Cavallo.